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immagine di un lavapiatti all'interno di una caotica cucina di un ristorante

IL MAIALE

di Susanna Bontempo

Tutti i diritti riservati

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L’ennesima goccia di sudore intraprese lo slalom fra la rada peluria delle scapole scivolando come una piccola slavina verso il fondo valle delle natiche, tramutandosi in una scia di lava bollente. Nabil scosse le spalle con un movimento contrario, nel vano tentativo di arginare il prurito sul nascere. Non poteva grattarsi perché le mani erano immerse nella schiuma unta del lavello stracolmo di piatti sporchi. Era circondato da pentoloni impilati come torri instabili al cui interno erano aggrappati corpi alieni di avanzi di cibo, grattato malamente da posate frettolose. La miscellanea olfattiva il più delle volte gli faceva arricciare il naso in una smorfia grottesca che ricordava le maschere rituali del suo villaggio, nascosto nella foresta equatoriale ai piedi del Pidurutalagala. La soverchiante trincea metallica gli impediva la vista dell’interno del locale. Alle sue orecchie arrivava solo il confuso brusio delle voci che tentavano vanamente di sovrastarsi l’un l’altra in una fastidiosa cacofonia.

Era l’inizio del fine settimana e il locale era pieno, non un tavolo era stato lasciato libero. La tenda di plastica secca e smozzicata dall’usura schermava la porta che dava sul cortile, da lì una brezza sottile si infilava come una serpe nell’angusto pertugio che si era creato, dandogli un transitorio sollievo. Dietro di lui ferveva un alacre e nervoso lavorio fatto di scalpiccii, ordini e comande urlate attraverso l’apertura che, come un cesareo, attraversava orizzontalmente il muro divisorio. Era un caos organizzato da cui lui era volutamente tagliato fuori dato che era solamente lo sguattero: meno di niente, praticamente un invisibile. Non doveva muoversi dal lavello, questo gli era stato ordinato dal padrone quando era stato mandato ad occupare il posto di chi aveva preferito la fuga allo sfruttamento.

I suoi piedi poggiavano su di un rialzo in legno instabile quanto una stampella e segnato in profondità dal continuo strusciare dei sandali. Lui in effetti non esisteva. Nessun documento, codice fiscale o quant’altro potesse identificarlo nella società civile. Era un profugo, arrivato col il vento caldo da terre lontane dopo un viaggio lungo e doloroso, gettato sulle rocce frastagliate della costa da un mare infuriato.

La sua famiglia era stata spazzata via l’anno precedente da una frana melmosa staccatasi dalla montagna dopo le piogge intense dei monsoni.

Si era rovesciata come una grossa pentola di melassa sulla loro capanna spalmandola nel raggio di cento metri. Nabil si era salvato per caso, dondolato dalle onde sulla sua giunca in attesa di riempire la rete. Quella notte inspiegabilmente calma e silenziosa dopo giorni di tempesta, si era popolata di centinaia di lame lucenti che erano schizzate dall’acqua atterrando sull’assito scheggiato. L’imbarcazione si era riempita in pochi minuti, mentre la meraviglia dilatava le pupille del piccolo uomo. Forse la dea della prosperità Lakshimi era venuta in suo soccorso, aveva pensato lanciando uno sguardo verso il cielo cupo. Le onde lo avevano sollevato nel buio fin quasi a toccare la luna mentre con le mani scorticate si teneva saldamente alla gomena. Assecondando il rollio dell’imbar-cazione il fasciame si lamentava come un animale morente. In lontananza il brontolio basso e prolungato di un Dio furioso rotolava giù dalla montagna. Al ritorno lo aveva accolto un silenzio mortale. Del suo villaggio non era rimasto nulla, come se non fosse mai esistito. Dove prima c’era la strada che portava alla sua casupola adesso c’era solo fango molle e puzzolente da cui spuntavano i resti del passaggio umano.

Si era fermato un giorno intero in attesa, seduto sul tronco martoriato di un albero della gomma finché il sole non era sparito dietro la linea dell’orizzonte. Vana la speranza di vedere qualcuno attraversare quella terra crepata e imputridita. Alla fine con il diffondersi di un odore pesante e mefitico, si era allontanato fra la fitta vegetazione, portandosi addosso tutto ciò che gli era rimasto: il vuoto nell’anima e l‘angosciosa consapevolezza di un addio.

La bolla dei ricordi gli esplose davanti agli occhi in mille schizzi colorati mentre la schiuma si gonfiava sotto il getto potente del rubinetto. Era capace di lavare e risciacquare centinaia di piatti fino a notte inoltrata, ignorando le coltellate che la stanchezza gli affondava nella schiena. La fame che lo mordeva come una pulce non lo lasciava in pace. Adocchiava gli avanzi nei piatti e si infilava in bocca quello che poteva prima che il cuoco girasse lo sguardo. Teneva da parte i quattro soldi che guadagnava per pagare l’affitto della brandina nel tugurio in cui viveva assieme ad altri quattro disgraziati.

Sbirciò dalla finestrella. Si intravedeva il lago calmo e liscio come velluto scuro. Il ristorante era situato adiacente la passeggiata al bivio fra due strade che dividevano a croce il parco comunale, i salici piantati a ridosso della riva arrivavano a sfiorare la superficie dell’acqua. Era affascinato dalla curvatura quasi innaturale dei rami, le cui foglie piccole e fitte formavano una cascata verde che ondeggiava lenta al respiro del vento. A notte inoltrata avrebbe percorso lo stesso tragitto fino a raggiungere la riva dove le anatre si lasciavano cullare dal moto dolce delle onde. 

Fra le sue incombenze c’era anche quella di gettare in pasto ai pesci quel che rimaneva della carne scaduta. A volte ne portava una latta colma su un piccolo carrello con una ruota sbilenca, che lo obbligava a trascinarlo più che a spingerlo. Sovente era stato fermato dalla guardia comunale ma d’intesa col cuoco lo aveva lasciato passare senza porre ulteriori domande. Tant’è che il tipo era diventato un assiduo frequentatore del locale, dove si presentava almeno un paio di volte a settimana.

Un verso taurino lo riportò coi piedi sullo sgabello. Occhieggiò di sbieco in tempo per vedere Sergio il cuoco arrivare dal gabinetto a grandi falcate. Ciondolava da una parte all’altra come un orso. «Stupido di un negro!» lo apostrofò tirandogli il canovaccio che teneva sulla spalla a mo’ di scialle.

«Non ti avevo detto di pulire il cesso ieri sera?» zampilli di saliva si dispersero nell’aria come condensa mentre gli occhi porcini trapanavano i suoi. Nabil abbassando la testa adottò lo sguardo vacuo e fisso che tante volte lo aveva salvato da situazioni peggiori.

«Io fare dopo» riuscì a smozzicare alle punte dei suoi piedi. Sergio lo soppesò sbuffando dalle narici come un toro in carica.

«Se la prossima volta che vado al cesso non lo trovo pulito, te lo faccio passare con la lingua!»

Il cingalese non mosse un muscolo continuando a fissare i sandali di cuoio. Non era una novità quel teatrino. IL cuoco trovava sempre qualcosa di cui lamentarsi con Nabil, l’ultimo arrivato. Gli altri si erano fermati a fissare la scena, trattenendo l’evidente sollievo di chi è passato di grado e non deve subire le stesse vessazioni.

«Ho una voglia di cacciarti a calci nel culo che fatico a trattenermi.  Non so nemmeno perché ti ho preso, scansafatiche del cazzo!»

Una piccola pozza si allargava ai piedi del cingalese dove le mani gocciolavano inermi in attesa che si chiudesse il sipario. Guardava di sottecchi quell’omone grasso e ingombrante che occupava tutto il vano del suo bugigattolo. I baffi folti e grigi si univano lateralmente alle basette formando due mezzelune sul viso rubizzo.

Il faccione, tirato come un pallone di cuoio, era tagliato a metà da una bocca larga e tumida dove facevano capolino i canini sporgenti. A Nabil ricordava un cinghiale, anzi un grasso maiale come quelli che scorrazzavano lungo le strade polverose del suo villaggio. Ghirigori di unto e chiazze di salsa si intersecavano in un disegno astratto sul grembiule dell’uomo allacciato con un doppio nodo sulla pancia prominente. L’incantesimo si ruppe al battito di mani. Nabil fece per girarsi e tornare all’acqua ormai fredda, ma il cuoco lo bloccò puntandogli un grasso dito sotto il naso.

«Stasera c’è da buttare i resti del maiale. Vedi di farlo quando è buio che non voglio casini. La strada la sai.» Un veloce dietrofront, nonostante la mole, ed era di nuovo ai fornelli. Non aveva aspettato risposta perché non era una domanda: era un ordine. Nabil fece un cenno a vuoto di cui nessuno si curò. Usava poco le parole perché la pronuncia era difficile. Ma capiva tutto anche se preferiva lasciare intendere il contrario. Appena arrivato aveva imparato come comportarsi per non dare nell’oc-chio: mostrarsi schivo e apatico. Più fingeva di non capire e meno subiva richieste. D’altronde chi aveva voglia di spendere fiato e fatica con uno stupido cingalese?

Nabil si guardò le mani dalla pelle molle e raggrinzita, le unghie tenere e rotte dalla permanenza in acqua. Le asciugò nello strofinaccio appeso alla vita e si diresse verso il magazzino con l’intenzione di riprendere fiato nascosto dietro le celle frigorifere. Aveva voglia di fumare un bidi lungo e sottile avvolto nelle foglie di tendu. Circondato dal fumo famigliare riusciva a richiamare alla memoria spezzoni della sua vita precedente, nomi e visi di gente perduta nell’oblio. Con l’ultimo tiro di bidi svanì anche l’ultima traccia del sapore sulla lingua. Prima di uscire tentò di convogliare il fumo con veloci manate verso la finestra retinata sul fondo dell’edificio. Era sicuro che il cuoco avrebbe annusato l’aria come un cinghiale in cerca di tuberi. Passarono esattamente pochi minuti prima che le grida del bestione lo raggiungessero al di là della porta di legno. Nabil agguantò velocemente un flacone di detersivo e si precipitò fuori proprio nel momento in cui il maiale baffuto appariva nel cortile. Schivò la pedata promessa e si catapultò come un centometrista al lavello. Erano rimasti solo lui, il cuoco ed un paio di camerieri, due eleganti pinguini che pulivano i posaceneri dai tavoli esterni. Il bestione si avvicinò velenoso come un aspide e lo prese per il collo.

«Se ti trovo ancora a nasconderti ti butto nel lago insieme agli scarti del maiale, negro di merda!» gli sibilò nell’orecchio prima di mollarlo con uno spintone. Nabil si aggrappò allo scolapiatti recuperando l’equilibrio, il viso schiacciato sulla zanzariera della finestrella. Un vento dispettoso scompigliava l’erba sulla riva. Il cuore pompava in gola lì dove la zampa del cuoco lo aveva artigliato. La sua mente si era completamente svuotata da qualsiasi pensiero, mentre una fitta nebbiolina avanzava rumoreggiando annebbiandogli pericolosamente la vista. Le orecchie presero a rombare come una cascata escludendo qualsiasi rumore che non fosse la grancassa del suo cuore.

Immobile, con la coda dell’occhio colse un bagliore. Una piccola pinna argentata spuntava tra la schiuma del lavello. Liscia e pericolosa come la morte. La lama del coltello francese, quello che il cuoco usava per spolpare la carne faceva capolino fra le bolle. Un invito Nabil ne era certo, che non poteva ignorare. Mesi di soprusi e vessazioni affogarono quel poco di razionale che ancora galleggiava sulla linea della sua coscienza.

Come un ballerino sulle punte, girò su sé stesso con un movimento fluido ed insieme elegante mentre la destra si tuffava nella schiuma e si chiudeva con forza sul manico di legno. Una cascata di acqua sporca investì il cuoco insieme ad una saetta invisibile che centrò il suo cuore rannicchiato tra le costole. Un fendente a rovescio gli aprì la gola da parte a parte disegnando un osceno sorriso. Il cuoco si afflosciò come una marionetta senza fili mentre gli occhi porcini si rovesciarono all’indietro mostrando il bianco slavato fra le palpebre immobili. Tra i due basettoni rimase calcificata un’espressione di incredulo stupore. Gli occhi velati dal buio eterno fissarono un punto imprecisato sulla parete scrostata.

Tutto si era svolto in pochi secondi. Non un grugnito era uscito dalle labbra del maiale, accartocciate in un rictus raccapricciante che lasciava scoperti i lunghi denti ingialliti. Nabil alzò lo sguardo trattenendo il fiato. Attraverso la frangia umida di sudore si avvide che i camerieri erano troppo lontani per aver udito qualcosa. Stavano chiacchierando al limitare del parco guardando verso il lago, dandogli le spalle. Il vapore delle sigarette elettroniche aleggiava sopra le loro teste come lo sbuffo di un camino.

Nabil trascinò il corpo dietro l’ingombrante credenza in acciaio, fuori dalla vista di chiunque si fosse affacciato. Ancora incredulo per ciò che aveva appena fatto si appoggiò ansimando alla parete mentre raccoglieva i pensieri pianificando le prossime mosse.

L’unica cosa al momento di cui era certo è che doveva sbrigarsi. Strisciò con la schiena sul muro fino a raggiungere la posizione eretta, provò a muovere un passo rendendosi conto che riusciva ancora a deambulare nonostante lo choc. Sfrecciò, per quanto gli era possibile, verso il magazzino inciampando nei suoi stessi piedi. Sapeva che il buio era l’unico complice che avrebbe avuto, ma perse lo stesso qualche secondo per assicurarsi che nessuno sbirciasse dalle finestre adiacenti il cortile. In un angolo trovò l’enorme bidone di latta coi resti della carne scaduta. Svuotò gran parte del contenuto, lo riposizionò sul triciclo attrezzato e lo spinse fino alla porta della cucina, scostando piano la tenda di plastica e sbirciando verso l’interno del locale. Voleva rendersi conto dove fossero finiti i pinguini. Nel mentre uno dei due infilò la testa dalla porta principale e chiese di Sergio. Nabil scattò all’indietro come tirato da un elastico invisibile smozzicando quel tanto che bastava per assicurare che se n’era andato a fumare uno dei suoi preziosi toscanelli. Li aveva visti sulla scrivania dell’ufficio in una scatola di legno rivestita di velluto, e sapeva che per abitudine il cuoco ne fumava uno alla fine della serata in un angolo appartato, godendosi il silenzio del locale svuotato dalla clientela. La sua assenza non destò allarmi. Il pinguino, scandendo bene le parole come se parlasse ad uno scemo, si raccomandò di avvisare il capo che loro se ne andavano. Con un paio di inchini assicurò loro che ci avrebbe pensato. Come no. Intanto dietro la credenza il cadavere non aveva dato segni di essersi mosso. Era proprio morto. Il cingalese non volle spendere un minuto di più su quella carogna. Adesso doveva disfarsi del cadavere e poi avrebbe pensato alla fuga.

A fatica riuscì a sollevarlo sotto le ascelle, trascinandolo nell’angolo dove l’enorme lavello in acciaio correva lungo la parete. Da un chiodo affisso alla parete prese la chiave che apriva l’armadio che custodiva i coltelli affilati ed igienizzati. Scelse una grossa e pesante mannaia. La fissò per qualche secondo in attesa che nella sua coscienza si palesasse un rigurgito di umana pietà che però non arrivò. Alzò il braccio sopra la testa e lo fece cadere a piombo sul cadavere. Ripeté lo stesso movimento decine di volte finché li muscoli delle spalle incominciarono a dolergli.

Impiegò poco più di un’ora a trasformarlo in una pezzatura che potesse facilmente essere ficcata nel bidone. Il sangue era rimasto quasi tutto sul fondo richiamato dal dislivello dello scarico, tranne un sottile rivolo che era scivolato giù finendo sul pavimento e incanalandosi nelle fughe delle mattonelle.

A mano a mano lanciava i pezzi direttamente nel contenitore come un cestista col canestro. Vuotò una dose generosa di candeggina che incanalò il sangue verso lo scolo. Coprì i resti del cuoco con gli scarti del maiale (quello vero) e infine distese sull’imboccatura una tovaglia tarmata che trovò nel magazzino sulle casse di melanzane. La bicicletta adesso risultava sbilanciata dall’abbondante peso del bidone che poggiava quasi interamente sulle ruote anteriori. Con fatica, in un equilibrio instabile si issò sulla sella e uscì dal cancello posteriore dirigendosi verso il lago di Mezzo.

Aveva sentito spesso il cuoco raccontare della voracità dei pesci siluro e quanto gli piacesse vedere quelle bestiacce gorgogliare fra le erbe lacustri. Osserva affascinato la schiuma biancastra sollevata nella lotta cannibale, le loro enormi bocche spalancate come oscene cavità. Il buio era come una pesante coperta macchiata da aloni di luce dove i lampioni si intersecavano con le chiome degli alberi.

Stagliata sul fondo vide la sagoma del vigile irradiata da una fioca luce riflessa. Pattugliava il tratto di passeggiata frugando con gli occhi il buio dei cespugli. Con la mano alzata a mo’ di paletta richiamò l’attenzione di Nabil che tentava di scansarlo. Dall’alto del suo metro e settanta squadrò il cingalese che gli arrivava a malapena allo sterno seduto in pizzo alla sella. «Cos’hai lì dentro?» cipiglio da qui-comando-io. Nabil mantenne gli occhi fissi sull’acqua al di là della strada, fingendo indifferenza. «Dentro maiale, solo maiale. Tu vedere?» e fece per spostare un angolo della tovaglia lercia. Era un bluff che doveva per forza provare. Il vigile sapeva della strana abitudine del cuoco. E soprattutto sapeva di non voler vomitare la cena fra i sassi del sentiero. Si spostò di lato e Nabil lo scansò sorpassandolo.

Un refolo d’aria si insinuò sotto al tessuto alzandolo e un grasso dito dall’unghia rotta fece capolino fra i resti della bestia. Un sorriso leggero come il vento apparve sulla faccia sudata del cingalese mentre conduceva il maiale verso la sua giusta fine. Gli occhi brillavano di sollievo.

Poche pedalate lo separavano dalla libertà, dal cuoco, dai pesci, dalla città, dal lago. Nessuno poteva dare la caccia ad un fantasma. Perché lui non era mai esistito.  

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