
MIAO È SCOMPARSO
di Roberto Rodolfo De Lorenzi
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Angelo Senàrega non sorrideva quasi mai, ragion per cui era chiamato anche Riso ræo.
Fumava mezzi toscani all’anice e trangugiava litri di Guinness.
Era stato un poliziotto, con un brutto carattere e una eccessiva insofferenza alle regole. Abbandonata la Polizia di Stato, dopo lavori di ogni tipo, aveva deciso di fare l’investigatore privato, ma senza nessuna licenza.
Il bar “Da Rocco” era diventato il suo ufficio. Il gestore del locale, che lo conosceva da anni, gli aveva concesso l’usufrutto di un tavolo e di una sedia in un angolo appartato del locale.
Gli facevano compagnia Rocco, un merlo indiano, la sua coscienza parlante e Rebus, il suo cane, razza mocio vileda, che non lo mollava mai.
Era la metà di luglio e il caldo umido si faceva sentire.
Il bar era un forno, l’unica soluzione per Riso ræo era quella di prendere una boccata d’aria fuori dal locale, sedersi su una panchina all’ombra, e impegnarsi seriamente a terminare la Settimana Enigmistica.
Si era appena seduto quando con la coda dell’occhio vide avvicinarsi, con passo lento, una vecchietta con uno strano cappello sulla testa e un paio di occhiali che sembravano due fondi di bottiglia.
La donna si fermò a guardarlo per qualche secondo, poi trovando un coraggio che fino a quel momento gli era mancato, esordì:
«Lei è Angelo Senàrega?»
«Cosa glielo fa pensare?»
«È proprio come me l’hanno descritto: “puzza di sigaro, non si fa la barba da giorni e forse anche una doccia non gli farebbe male”.»
A Senàrega quella vecchia stava già sulle palle. Pensò, per prima cosa, di colpirla con una pappina delle sue e rimandarla a casa con l’aggiunta di un doppio paio di calci in culo.
“Potrei aspettare che muoia - pensò come alternativa - ma questa mi sa che ha una salute di ferro”.
Rebus si era avvicinato e la stava annusando.
«Fortunato, lei ha ancora il suo cane anche se, me lo lasci dire, puzza come lei, Miao invece è scomparso.»
«Figlio? Nipote?» azzardò Riso ræo.
«No, il mio gatto. Lei lo deve ritrovare!»
«Per essere corretti, signora, sarebbe più giusto dire: lo potrebbe ritrovare?»
La donna frugò a lungo in una borsa nera, prese una foto e la mise tra le mani di Senàrega. Era la foto di un gatto nero con una macchia bianca sulla fronte.
«Scommetto che questo è il gatto scomparso.»
La signora annuì.
«Io veramente sono abituato a trovare altre cose. In genere cerco mariti o mogli che si divertono a mettere un bel paio di corna al legittimo consorte. I gatti non sono mai stati oggetto del mio lavoro.»
«Lei lo troverebbe sicuramente, se solo lo volesse.»
Come spesso succedeva, il passa parola attribuiva a Senàrega la capacità di rivolvere qualsiasi problema. E, come si diceva, con le buone o con le cattive: dritti all’obiettivo.
Clara, la barista, era uscita dal locale e riconoscendo la signora la salutò come una vecchia conoscenza.
«Buongiorno Angiolina. Come va?»
«Male, Miao è scomparso e questo cerca cornuti non mi vuole aiutare.»
«Vi conoscete?»
«Certamente, è una vecchia amica di mia madre.»
Senàrega cominciava a surriscaldarsi, questo voleva dire che stava per perdere il suo self control, per cui poteva dire o fare qualsiasi cosa gli passasse per la mente.
Resisteva per la presenza di Clara, che in fondo considerava come la figlia che non aveva mai avuto, ma la vecchia non voleva saperne di tirare le cuoia, per cui decise di alzarsi e allontanarsi in tutta fretta.
«Ora purtroppo devo lasciarvi, ho un appuntamento a cui non posso mancare. Racconti tutto a Clara - poi, sapendo di mentire, aggiunse - quando torno vedrò quello che posso fare.»
Così dicendo si alzò e, seguito da Rebus, si diresse verso il Porto antico, per respirare un po’ di aria salmastra: una droga a cui non sapeva rinunciare.
Verso il tardo pomeriggio tornò al suo tavolo, seguito da Rebus.
Righello lo aspettava, parlando con Clara.
Federico Chiappe, chiamato da Senàrega Righello, perché era secco come un chiodo, formava con Clara la sua squadra.
Senza di loro l’investigatore privato Angelo Senàrega non sarebbe esistito e per qualcuno sarebbe stato meglio così. Buona parte del loro tempo libero veniva impiegato a dargli una mano: scoprire notizie e informazioni, fare foto e filmati, pedinare qualcuno e altre cose su cui è meglio sorvolare.
Senàrega che li conosceva bene intuì subito che i due stavano complottando qualcosa.
Anche Rocco aveva capito:
“Aangeeloo freegaatuuraa… freegaatuuraa”.
«Ragazzi, cosa state complottando alle mie spalle!»
«Mi sono portato avanti con il lavoro dottore.»
«Quale lavoro?»
«Il gatto scomparso. Per noi il gatto è stato ucciso!»
Senàrega mimò con la mano il gesto di voler bere. Clara capì al volo e corse a prendergli una Guinness gelata.
La bevve tutta d’un fiato.
Poi, guardando i ragazzi, sussurrò:
«Allora per voi si tratta dell’omicidio di un felis silvestris. Non si devono uccidere gli animali, posso chiudere un occhio per un umano, ma per un gatto, no! E voi avete idea di dove potrebbe essere il cadavere?»
«Mi scusi dottore si riferiva al cadavere del felis…?»
«Lasciamo perdere.»
«Il fatto è strano, proprio perché del gatto non c’è più traccia. Miao stava sempre in casa, al massimo sul davanzale della cucina. Da due giorni nessuno lo ha più visto. Per me c’è sotto qualcosa di grosso.»
«E se fosse colpa solo di una gatta più calda delle altre?»
«È castrato e non ci sono gatti in tutto il palazzo.»
Riso ræo si vergognava di ammettere che la vicenda cominciava ad intrigarlo. Soprattutto gli continuava a ronzare nella mente una domanda: “perché eliminare un gatto?”
«E se fosse caduto?»
«Direi che è impossibile. Abbiamo cercato con il figlio della signora Angiolina, chiesto a molti inquilini, ma il gatto sembra scomparso nel nulla.»
«Ma non sono i gatti che cadono sempre in piedi e poi hanno sette o nove vite?»
La battuta non aveva fatto effetto, per cui Senàrega s’era chiuso in un mutismo assoluto. Giocherellava con la bottiglia di Guinness vuota e aspettava che un’idea si formasse nella sua testa, ma non accadeva nulla.
Dovette passare un’altra mezz’ora prima che si decidesse di prendere la vespa 125, con Righello piazzato sul sedile posteriore, per raggiungere la casa della signora Angiolina. Nonostante il divieto di muoversi, anche Rebus era salito sulla moto mettendosi tra i piedi di Riso ræo.
Faceva sempre più caldo e le finestre erano quasi tutte aperte.
Ci volle poco a raggiungere la casa del gatto scomparso.
Senàrega si guardava attorno come se stesse cercando qualcosa.
«Cerca qualcosa dottore?» chiese Righello.
«Un posto dove seppellire un gatto, ma qui attorno non mi sembra di vederne.»
«Quindi anche lei si è convinto che…»
«Quali sono le finestre della signora Angiolina?»
«Quelle quattro sulla destra.»
Senàrega cominciò a guardare con interesse qualcosa.
«Mi incuriosisce quella sporgenza che c’è tra le quattro finestre a destra e le altre quattro a sinistra.»
«Perché?»
«Perché il gatto avrebbe potuto percorrere la sporgenza e…»
«E cosa?»
«Raggiungere, ad esempio, la casa del vicino.»
«Ma lì abita un professore di italiano in pensione, che motivo avrebbe di uccidere un gatto?»
Di colpo Righello si girò di scatto.
«Dottore, guardi che combinazione, sta uscendo.»
«Chi sta uscendo?»
«Il professor Mancini. Da come me l’hanno descritto deve essere proprio il vicino della signora Angiolina.»
Dal portone del palazzo stava uscendo un signore sui settant’anni, capelli bianchi, raccolti in una coda, e uno zainetto sulle spalle.
A Senàrega non piacevano i professori di italiano con i capelli lunghi.
«Quello mi puzza lontano un miglio di omicidio premeditato.»
«Facciamoci una bella pedinata, dottore?»
Senàrega annuì.
Cominciarono a seguirlo a debita distanza.
L’uomo camminava lentamente.
Passando davanti ad un’edicola, Senàrega prese un giornale e se lo mise sotto il braccio. L’edicolante guardò Righello con aria iraconda. Il ragazzo cercò dei soldi nella tasca e pagò il giornale.
«Tenga il resto, ci scusi ma siamo in missione.»
Il professore entrò in un parco che era a qualche chilometro dalla casa di Angiolina e si sedette su una panchina. Prese dallo zaino un libro e iniziò a leggere.
Riso ræo e Righello erano riusciti a trovare una panchina poco distante, si sedettero anche loro e cominciarono a tener d’occhio il professore.
Senàrega cominciò a leggere il giornale.
«Ci prenderanno per due culattoni con cane al seguito.»
«Prendo il telefono e faccio finta di telefonare, cosa ne dice dottore?»
«Fai quello che vuoi.»
Il professore rimase circa un’oretta a leggere, poi si alzò e ritornò verso casa.
«Mi sembra un tipo tranquillo» azzardò Righello.
«Non mi piace, con quella coda assomiglia a Vincent Vega. Ho notato che prima di sedersi sulla panchina e quando si è alzato per tornare a casa ha fissato un punto del terreno un po’ troppo a lungo. Poi ha le mani graffiate, potrebbe essere stato anche un gatto.»
«Qualcuno nel palazzo dice di averlo visto uscire di casa l’altra sera con una grossa valigia.»
«Interessante.»
Lo seguirono fino a casa poi tornarono nel parco, avvicinandosi alla panchina dove si era seduto il professore.
Senàrega tolse con il palmo della mano alcune foglie.
«Ragazzo mio, qui la terra è stata già smossa.»
Rebus saltò di colpo nell’aiuola e comunicò a scavare in maniera frenetica.
Sotto due palmi di terra spuntò qualcosa: un sacco di plastica nero.
Senàrega a fatica lo prese e l’aprì: un odore fetido ammorbò l’aria. Dentro il sacco c’erano i resti di un gatto, completamente nero con una macchia sulla testa: sicuramente era Miao.
«E ora che facciamo?»
«Il gatto ce lo portiamo via. Rimettiamo tutto a posto, con le foglie sopra, non voglio che il professore con la coda di cavallo se ne accorga.»
«Non abbiamo prove che sia stato lui» cercò di fare l’avvocato del diavolo Righello.
«Ha una faccia da culo e poi con quella coda da cavallo glielo si legge in faccia che è colpevole. Dobbiamo solo farlo confessare, con le buone o con le cattive.»
Si capiva che Senàrega era incazzato.
Si stava convincendo che la morte di Miao nascondeva, come aveva detto Righello, qualcosa di più grosso.
«Ti devo chiedere un piacere, Righello. Conosco un veterinario con i coglioni, che in qualche occasione cura anche i cristiani. Non esercita più per qualche scontro con le leggi dello Stato italiano. Portagli, a nome mio, il gatto e digli che voglio sapere come è morto» così dicendo mise la mano in tasca per estrarne il portafoglio, prese uno scontrino che giaceva tra le varie carte e scrisse su nome e indirizzo.
«Ecco, portagli i resti del gatto e fatti dire come ha fatto a diventare cadavere. Ah, dimenticavo, guarda che a quell’indirizzo c’è un’officina per auto.»
Righello scrollò la testa e si allontanò.
Il giorno dopo, di buon mattino, portò a Senàrega il responso del veterinario/meccanico.
«Dottore a Miao hanno tirato il collo. Ma aveva le zampe e il corpo insanguinato, il meccanico, scusi il veterinario, è sicuro che non era sangue del gatto.»
«Forse il gatto ha scoperto qualcosa che non doveva.»
«Un gatto detective.»
«No, un gatto che non ha saputo farsi i cazzi suoi e per questo è morto!»
Senàrega e Righello si erano vestiti completamente di scuro per fare una buona impressione, ma assomigliavano a due cassamortari.
Il ragazzo portava a fatica una borsa.
Esitarono un po’ prima di suonare il campanello del professor Mancini.
Rebus aveva preso a graffiare la porta, che stentava ad aprirsi.
Finalmente la porta si aprì.
«Cercate qualcuno?» chiese una voce sgradevole.
«Buongiorno, siamo dell’associazione “Il cercagatti”. Desideriamo parlare con la signora Angiolina Parodi.»
«Ma è la mia vicina.»
«Ci scusi, devono averci dato un indirizzo sbagliato. Sa, abbiamo ritrovato il suo gatto e volevamo consegnarlo.»
Sulla faccia dell’uomo si stampò una chiara espressione di stupore, con evidenza mal celata.
Senàrega, pensò tra sé e sé: “Sei colpevole, maldetto assassino di gatti”.
«Ma dove l’avete trovato?»
«In un parco qui vicino.»
Righello aprì la borsa che teneva in mano e subito fece capolino miagolando un gatto nero con una macchia bianca sulla testa.
«Non è possibile» disse a bassa voce l’uomo, ricomponendosi subito.
«Ha detto qualcosa?» chiese con fare interrogatorio Riso ræo.
«No, nulla.»
Rebus, nel frattempo, si era introdotto in casa.
«Non so cosa dirvi, io non sapevo che la signora avesse un gatto.»
A Senàrega cominciarono a girare le palle.
«Ci scusi per il disturbo.»
L’uomo non ebbe il tempo di dire altro perché una pappina di Senàrega lo mise a terra. L’uomo si alzò barcollando, un pugno sul lato destro della faccia lo mise definitivamente KO.
Quando si risvegliò, il professor Mancini era legato ad una sedia con un grosso cerotto in bocca.
Si agitava ma inutilmente perché Senàrega l’aveva legato come un salame.
«Non sapevi che la signora aveva un gatto.»
L’uomo scrollò la testa per tentare di confermare.
Senàrega lo colpì di nuovo facendolo cadere a terra con tutta la sedia.
«Vorrei sapere perché il mio cane è così attratto dal frigorifero. Cosa ci tieni del pollo arrosto? O forse nasconde un tesoro; perché non ce lo dici tu così ce ne andiamo.»
L’uomo cercava di parlare ma il cerotto sulla bocca glielo impediva.
«Non capisco cosa dici, parla più forte. Continuo a non capire.»
Righello aprì il frigo lanciando un urlo.
«Dottore ci sono dei pezzi…»
«Di pollo.»
«No di un cadavere!»
«Uomo o donna?»
Righello non riusciva ad aprire bocca.
Senàrega si avvicinò al frigorifero. Avvolti in una pellicola c’erano dei pezzi di quello che era stato un corpo umano.
«Uomo peloso. Mancano dei pezzi: dove di hai messi? Ecco cosa trasportavi con quella valigia.»
Si avvicinò all’uomo togliendogli di colpo il cerotto sulla bocca.
«Era uno strozzino, non riuscivo più a sostenere gli interessi.»
«E così te li sei tagliati da solo. Non dovevi farlo, bastardo!»
«Non riuscivo più a pagarlo.»
«Non mi riferivo al cravattaro, di cui non me ne frega niente, ma al gatto, non dovevi uccidere Miao!»
«Mi ha sorpreso mentre tagliavo il corpo, si è riempito di sangue, non potevo più lasciarlo andare.»
«E perché non hai tagliato a fette anche lui e buttato con gli altri pezzi?»
«Perché il suo spirito non mi tormentasse.»
«Ah, ma allora ti si è fuso il cervello, ora è tutto chiaro. Righello, trovami un telefono.»
Il ragazzo gli indicò un tavolinetto dove c’era il telefono. Senàrega alzò la cornetta e compose un numero.
Prese un fazzoletto dalla tasca dei pantaloni e all’udire la voce dall’altro capo lanciò il suo messaggio:
«Pronto, pronto, sono il professor Mancini, ho ucciso un uomo, venitemi a prendere.»
Aggiunse il nome della via e il numero del portone, poi buttò giù di colpo.
«È meglio che ci togliamo dai piedi. Ora ci penserà qualcun altro. Andiamo Rebus.»
Così dicendo uscirono tutti e tre in fretta dileguandosi nella notte afosa.
Al bar “Da Rocco” c’era il solito tran-tran.
La signora Angiolina aveva di nuovo un gatto nero, Senàrega gli aveva fatto credere che era un fratello di Miao. Si era stupita però perché la macchia bianca era lentamente sparita.
Senàrega non aveva avuto il coraggio di dirle che era stata fatta con un pennarello.
Il Vice Questore Caruso, il vecchio capo di quando era nella Polizia, con un’espressione da “poliziotto cattivo”, aveva fatto un passo al bar.
«Caro Angelo, spero che tu non c’entri qualcosa con l’arresto del professor Mancini, sarebbe la fine della tua carriera di finto investigatore privato. È la prima volta che un uomo legato come un salame riesce a telefonare alla polizia per autodenunciarsi.»
Qualcuno ha descritto due uomini che si aggiravano nella zona, uno assomigliava a te, l’altro al tuo pseudo aiutante Seghetto.
«Righello, dottore, Righello.»
Da parte di Senàrega nessuna risposta.
Rocco aveva cercato di dargli una mano:
«Aangeeloo buuoonoo.»
Rebus aveva preferito nascondersi sotto una sedia.
Per una volta Senàrega si sentiva contento di quello che aveva fatto, anche se non ci aveva guadagnato niente se non un bacio sulla guancia da parte della signora Angiolina.
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